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Pubblicato su politicadomani Num 83/84 - Settembre/Ottobre 2008
Incontri al carcere di Velletri
A colloquio con il Comandante
Il carcere non svolge appieno il suo ruolo e in alcuni casi potrebbe essere sostituito da altre forme di pena. In una situazione obiettivamente difficile la polizia penitenziaria svolge un ruolo delicato che le viene poco riconosciuto di Maria Mezzina
È romano e si sente, il dott. Luca Pasqualoni, Comandante del carcere di Velletri. In servizio da un anno, è approdato al vertice della Polizia Penitanziaria dopo aver vinto, da esterno, il concorso. Una laurea in Giurisprudenza, ispettore di polizia e poi sei mesi in Veneto.
Mi ha accolto nel suo ufficio, una stanza ampia e un po’ melanconica. Soffitto basso, luce che filtra attraverso le pesanti grate di una sorta di finestre, delle aperture verso l’esterno, troppo sottili e poste troppo in alto rispetto alle dimensioni e alla posizione di una normale finestra.
“Quanti sono attualmente i detenuti nel carcere di Velletri?”, chiedo.
“370” è la risposta. Ho un sussulto. Due anni fa, poco dopo l’indulto erano solo 245. “Finalmente si respira”, aveva detto in una intervista (politicadomani n. 61/62, sett./ott. 2006) il vice-comandante Andrea Quattrocchi, che allora faceva funzioni di Comandante. Noto, a quel punto, che in brevissimo tempo è sorto, poco lontano dall’edificio bianco che accoglie attualmente i detenuti, un altro edificio di colore rosa acceso. Si sta ultimando a tempo di record un nuovo carcere.
“L’effetto indulto si è esaurito in breve tempo”, osserva il comandante. “Non è giusto, però, che il carcere sia il luogo dove si riversa di tutto”. È necessario pensare a pene alternative, spiega, non solo per far fronte all’emergenza, ma anche per mettere in piedi percorsi educativi che svolgano anche una funzione di prevenzione. E neanche è giusto dare ai colletti bianchi colpevoli di reati finanziari pene pecuniarie che questi personaggi possono facilmente pagare, anziché la detenzione in carcere.
A parte il 41 bis (il più grave dei reati di mafia e criminalità organizzata), nel carcere di Velletri ci sono tutte le tipologie di detenuti: detenuti per reati comuni, per spaccio di droga, detenuti ad alta sicurezza, sezioni precauzionali con detenuti responsabili di crimini particolarmente odiosi (come pedofilia, violenze, stupri, ecc...), detenuti ex colleghi, ex poliziotti, ex magistrati, ex preti. Non riesco a nascondere un moto che viene da dentro, dal profondo: è probabilmente la sezione più triste.
“Ciò che è più grave, dice il comandante, è l’altissimo tasso di recidiva, il 40%. In queste condizioni, pensare che il carcere e la pena siano, come dice la Costituzione, il luogo e il tempo del recupero e del reinserimento nella società, diventa improponibile. Occorre l’educazione. Ma se il detenuto ha alle spalle una famiglia scombinata e dispersa (per esempio una madre tossicodipendente, un padre spacciatore o che vive di espedienti) è difficile che non ritorni a delinquere”.
“È un lavoro complesso e logorante quello della polizia penitenziaria, afferma il Comandante. Duro, carico di tensioni e anche di pressioni. Il carcere è un mondo a parte con regole precise dove la libertà manca un po’ a tutti, agenti e comandante compresi”. Poi continua, e sul suo volto compare appena un velo di amarezza: “La polizia penitenziaria è preparata, capace, e con una buona cultura. Ma ancora la gente di queste persone, che svolgono compiti delicati e difficili, ha un’idea fuori della realtà e pensa che siano rozzi e poco scolarizzati. Nulla di più sbagliato. Le grandi aperture del mondo del carcere verso l’esterno servono anche a questo: a rendere trasparente questo mondo e a farlo conoscere nei suoi molteplici aspetti, incluso quello del lavoro della polizia penitenziaria”.
È una cosa buona, commento ad alta voce, e dico che occorrerebbe moltiplicare le occasioni per rendere questo mondo sempre più trasparente. Ma il Comandante aggiunge: “Purché non diventino una passerella, una sorta di promozione d’immagine”. Bravo, Comandante, penso fra me. Ciò che veramente conta è andare sempre alla sostanza delle cose. Tutto il resto è uno strumento o un di più. Non lo dico, ma la stretta di mano con cui ci salutiamo a fine intervista è cordiale e calorosa.
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